Nel panorama del teatro mondiale Pirandello rappresenta un’icona sacra. Nella sua poliedrica e variegata produzione ha permesso a tanti di avvicinarsi al suo teatro. In scena, ormai da oltre cento anni, vediamo compagnie misurarsi con le sue opere e i risultati non sempre sono entusiasmanti. Alcuni testi, apparentemente più semplici, sono stati sdoganati in tutte le salse: ‘A patenti, ‘A birritta cu ‘i ciancianeddi, Liolà, ‘A giara, Lumie di Sicilia, Pensaci Giacuminu… C’è chi lo stravolge rendendolo contemporaneo, chi lo riprende perché piace a tutti… E Patrizia Gula? Perché a un certo punto sceglie di mettere in scena proprio ‘A vilanza?
La scena si apre con lo sfondamento della quarta parete, con un andirivieni che ricorda a tutti quanto il teatro sia vita, con maschere e volti. Una postilla iniziale, un preludio che accompagna il pubblico alla fruizione. Invita gli spettatori a lasciare per qualche ora il pregiudizio, ad abbandonare quel gusto sadico per la morale. Serve ancora nel 2023 ricordare che i giudici sono solo in tribunale? Amara risposta: Purtroppo sì.
Tra i nomi che sceglie per il cappello iniziale torna Marta, la prima donna, quella Abba che al caro Luigi fece perdere la testa. In questa complessa sinfonia di battute, cucite a quattro mani, si riesce distintamente a scorgere il tocco di Martoglio, a cui è affidato il compito di delineare, con un sorriso, l’unico personaggio immune al dramma. Donna Rachela, è una martogliana Cicca Stonchiti, che Marilena Russo ha vestito con naturalezza, grinta e brio. Ninfa è “na canazza arraggiata, ca nun si sazia mai!” o per dirla con Verga “la chiamavano La Lupa perché non era sazia giammai”.
L’incontenibile lussuria dell’adultera trova condanna, a quasi quarant’anni di distanza, nelle parole dei due autori siciliani. In lei ricade la colpa di ogni male, nel salotto borghese che è il carcere della tortura, non è prevista assoluzione. Titti Puzzo riesce a vestire o meglio a svestire i suoi panni dimessi per indossare, senza timore, il disonore e la bramosia peccaminosa. Nel quadrato amoroso che ricorda Cavalleria Rusticana, il marito tradito architetta una soluzione alternativa per vendicare l’onore ferito. E mentre il verghiano compare Alfio trova nel sangue appagamento il pirandelliano Oraziu escogita una vendetta mefistofelica. Un plauso a Salvo Randazzo che mastica un ottimo dialetto: strittu, ‘ncaccatu, ormai lontano dalla nostra parlata. Riesce molto bene a non farlo apparire mai un linguaggio posticcio. Difficile il ruolo dell’impenitente marito fedifrago Saru, al secolo Gaetano Russo, che modula tutte le sfumature di un uomo “ca frevi maligna”, patri e picciriddu. Infine Anna (Stefania Arena) santa, ‘nfilici e remissiva. Per amore permette che nel suo corpo si consumi una violenza, un sacrificio enorme ma inutile per ripristinare l’equilibrio di quella vilanza. Straordinaria interprete di un dolore sordo che oggi (e solo sul palco) è stata la sua maschera. Un felice ritorno di Patrizia Gula in duplice veste, attrice e regista, ha firmato un decorosissimo omaggio al Teatro (con la T maiuscola) con maestria, rispetto e grande attualità senza ricorrere ad esagerazioni o moderne stramberie. La regista non ha mancato di ringraziare la dott.ssa Valentina Lombardo, dirigente del IV I. Domenico Costa, per aver concesso gli spazi alla compagnia Re di Cuore per le prove. Unica nota dolente lo stato di profondo abbandono in cui versa l’Auditorium G. Amato che speriamo possa tornare in breve tempo al decoro che merita.
In scena anche: Danilo Riciputo, Kate Battaglia, Piera Di Benedetto, Cinzia Scaduto, Saverio De Luca e Antonio De Riggi. Il Service audio luci è stato affidato ad un impeccabile Maurizio Cianchino. Apprezzatissima e funzionale la scelta delle musiche: Bocca di Rosa e Andrea di Fabrizio De Andrè, Cu ti lu dissi e Mi votu e mi rivotu di Rosa Balistreri e infine ‘A finestra di Carmen Consoli. Gli spettacoli della compagnia Redicuore sono sempre forieri di messaggi forti e coraggiosi e anche stavolta non hanno deluso le altissime aspettative.
Diceva Jean Paul Sartre nella sua opera “A porte chiuse”: “L’enfer, c’est les autres” (L’inferno sono gli altri). Con un ghigno dimesso possiamo affermare che aveva, ed ha, tristemente ragione.
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